Categorizzazione:

Racconto

Scritto

Funzioni:

ATTENZIONE: questa opera al momento è in Archivio. Per riportarla in biblioteca, seleziona l’opzione nella funzione “Note/Archivio”

Dedicato ai brutti anatroccoli

Autore: DOMENICO ROMANO MANTOVANI

Dedicato ai brutti anatroccoli

«Guarda qua» dico con stupore, indicando una foto posta in terza pagina.

Mia moglie si avvicina al tavolo e volge lo sguardo al giornale, che trattengo con mani un po’ malferme.

«Chi è?» domanda

«Morena.»

«Morena?» fa eco la sua voce interrogante. Non poteva ricordare. 

«Sì, Morena, la mia studentessa. Te ne ricordi? È roba di molti anni fa.»

Lina si affaccia ai ricordi di quando ancora insegnavo. Ma sì, era proprio Morena. Quella singolare ragazza dalle lenti spesse, di cui le avevo spesso raccontato. Non diedi mai peso al disagio mentale di quella giovane. Per me, Morena era una come tanti, forse un po’ bizzarra. Purtroppo, a scuola la pensavano diversamente. Nei consigli di classe ci si riduceva a sterili discussioni di facciata, senza sforzarsi di entrare nel vissuto della giovane. Gli insegnanti di sostegno erano sempre neutri e abbottonati, forse per timore di avventurarsi in un’esistenza inafferrabile. A diciotto anni la diagnosi era bella e fatta: disturbi di personalità. E di lì nessuno si spostava. Ma devo confessare che anch’io, a volte, mi rifugiavo in quella diagnosi stucchevole pensandola proprio come i miei colleghi. Accadeva quando con Morena risultati non ne vedevo. 

Il nostro modo freddo di scrutare il suo pensiero libero e sfuggente non portava da nessuna parte. Bisognava provare a camminarci accanto a quel pensiero, cercando di non violarlo. 

«Cos’ha combinato?» mi chiede Lina. «Con la testa non era per niente giusta» aggiunge sconsolata.

«È qui che ti sbagli, mia cara» replico. 

Sono esterrefatto. Ma non so se per l’eccessivo entusiasmo che provo oppure per sviare un rimprovero che a me medesimo dovevo: di Morena avevo perso le tracce.

«Ha pubblicato!» esclamo.

«Ha pubblicato cosa? Di che parli?»

Lina è spazientita. Anch’io le sembrerò “non giusto con la testa”; e non solo quella minuta e fragile giovane di una volta, che ora sgambetta nella memoria.

«Ha pubblicato una raccolta di poesie» insisto.

E le indico da capo la foto sul giornale.

«Ma va!» è il suo commento incredulo. 

Nessuno avrebbe mai immaginato un futuro importante per quell’anima angelica, abitata da un disagio severo, che alimentava il suo timore di essere al mondo.  

«Ha pubblicato» scandisco ancora, quasi sillabando. 

La mia lungimiranza di tanti anni prima si era avverata. In lei avevo visto un talento nascosto, contro il parere di coloro che smorzavano i voli concettuali di quella ragazza buona, uscendosene con sorrisetti ironici. Serviva un atto di pace e non di arroganza. 

«Fu data per spacciata» dico a mia moglie. «Al liceo non c’era sostegno che potesse inseguire la sua lucida e mirabile mente.»

«Gli altri la diedero per spacciata» mi corregge lei. «Non certo tu.»

«Morena, mi ascolti?»

Morena mi fissava, seduta in prima fila in quella classe perlopiù di femmine, dove era giunta l’anno prima non si sa da dove. Come una Giovanna d’Arco armata di spada, il suo modo di farci guerra feriva la nostra anonima idea delle cose. Non si riusciva mai a prenderla per il verso giusto. Sapeva troppo o troppo poco. Non domandava mai il permesso, però chiedeva sempre scusa. Si impauriva per una formica, ma sapeva affrontare impavida quel che per noi era rischioso. Leggeva speditamente Primorski, il quotidiano della minoranza slovena nella Venezia Giulia, ma parlava anche croato, perché originaria di quelle parti. Conosceva un po’ di arabo e odiava gli antidemocratici. Quando spiegavo, pensava ad altro perdendosi a sfogliare alcuni quotidiani, forniti dall’istituto scolastico. A voce alta, volavano a iosa improperi e sacramenti ai danni dei disonesti. Di pazienza ne serviva tanta.

«Morena, prova a seguire la lezione.»

«Lei ci va a votare, prof?»

«Certo che ci vado.»

«Lo dica anche a questi» e fece cenno ai compagni di classe, che nemmeno la guardavano. Per loro Morena era solo fonte di disturbo.

Era come aria, nuvola o spirito impossibile. La sua razionalità provocava le nostre coscienze. Atterriva per i paradigmi complicati che sfoderava. Il pensiero di Morena non aveva vincoli. Se ne infischiava di tutti e affermava con durezza la sua singolare presenza. 

A volte, i docenti di sostegno mugugnavano e si spazientivano. Ma non erano cattivi. Erano solo dall’altra parte della barricata.

Al quinto anno, poco prima dell’Esame di Stato, Morena scomparve dal liceo. Non si diplomò. Seppi che lavorava come categoria protetta in una libreria antiquaria della città. Forse, proprio fra i libri quella mia ragazza “inutile” si sarebbe salvata.

Passai alcune volte a trovarla, senza mai parlarle della fuga dal liceo. Alla fine mi decisi. 

«Dovevi diplomarti» la rimproverai. «Hai lasciato tutto.»

Morena finse di non ascoltare e sparì fra gli antichi scaffali, armeggiando con le mani piccole e le braccia scheletrite. 

Più che a lei, quel rimprovero dovevo rivolgerlo a me. Non avevo saputo impedire che abbandonasse gli studi. Ma dovevo altresì riconoscere con rammarico che la scuola non era luogo per lei. Vi erano troppe idee preconfezionate, strapotere dei voti e umiliazioni per chi non ce la faceva.

«E se non volessi dare nulla?» rispose.

«Cosa c’entra?»

«Ho lasciato tutto perché non voglio più dare nulla; alla scuola nemmeno.»

«In classe, io non ti chiedevo di dare. Volevo solo che mi ascoltassi.»

«Io l’ascoltavo prof… e sapevo che lei mi proteggeva.»

«Era mio dovere farlo.»

«I doveri li hanno creati gli uomini. Dio non ha doveri.»

«Che c’entra Dio. Ci metti sempre qualcosa che non c’entra.»

«Dio c’entra perché esiste, senza che qualcuno lo obblighi a esistere.»

«Vorresti essere così? Esistere senza che qualcuno ti obblighi?»

«Le mie poesie me lo permetteranno. Esisterò nei miei versi.»

«I tuoi versi? Non sapevo scrivessi poesie.»

«Le scriverò, prof. Un giorno mi vedrà sui giornali. Sarà un necrologio.»

«Ehi! Che ti passa per la mente?» protestai. «Non farmi preoccupare.»

«Non si allarmi» replicò con delicatezza. «È la parola che per esistere muore. Ogni vera parola muore nella testa di chi non la comprende.»

Eccolo il suo modo sovradimensionale di esprimersi. I suoi disturbi di personalità superavano la nostra capacità di ascolto. 

Passai un’ultima volta a trovarla in libreria. Mi disse che sarebbe partita.

«Quando torni?»

«Non tornerò più.»

Uno spasmo mi prese. Tentai di sorridere.

«Suvvia, non dire così. Non scherzare. Quando torni?»

«Venga a trovarmi, prof. Mi trasferisco fra i monti. Farò legna per il fuoco e canterò alle tegole della mia casa. I miei possiedono un casolare sperduto in una valle. Venga a trovarmi.»

Non risposi. Chinai il capo. 

«Prenda questi» mi disse, infilandomi dei fogli nella tasca della giacca. «Quando posso, scrivo. È un racconto per il futuro. Si parla di me, di lei, di sua moglie, della scuola, della parola che muore, delle poesie che scriverò. Un giorno lei le leggerà.»

Non capivo quel che mi diceva, proprio non capivo. Sapevo solo che non l’avrei più rivista. 

Qui termina il racconto di Morena, fedelmente trascritto in queste pagine. Sono i fogli che mi affidò prima di partire e che avevo abbandonato in un vecchio cassetto.

A suo tempo lessi più volte il racconto, ma senza dargli particolare peso. “Che fantasia!” mi dicevo. La mia studentessa raccontava quel che sarebbe in futuro accaduto. C’ero io seduto a un tavolo, mentre mostravo il giornale a mia moglie. E poi si andava indietro: i consigli di classe, i disturbi di personalità, i miei dialoghi con lei, la libreria antiquaria. 

In quei fogli, Morena aveva aperto uno slargo nell’avvenire. Il fallimento scolastico e la libreria  convivevano con la foto sul giornale e la prima pubblicazione di versi. Versi ancora stipati nella coscienza di una narratrice ambiziosa, ma respinta da chi credeva di sapere tutto. In quel racconto, Morena aveva già plasmato il suo futuro. 

Una domanda sorge: fu solo una curiosa coincidenza immaginare nel racconto quello che poi sarebbe in effetti accaduto? 

Non sta a me rispondere. Voglio solo ricordare che sono tanti i brutti anatroccoli che invano vagano nella scuola col desiderio di diventare cigni.

A Morena è andata bene, mentre ad altri resta solo l’amaro rifiuto.

Di seguito trovate una delle sue poesie, in cui si nomina il candore delle cicogne. Anche i cigni simboleggiano il candore. Ma sovente il biancore del piumaggio si ferma per noi all’idea, alla metafora; e non lasciamo che diventi un atto di pace, di aiuto, verso chi non ce la fa.

LEGGERMI DENTRO

Ho sistemato con parsimonia 

Le tegole del mio tetto 

Per farne nido alle cicogne 

Che si elevano candide

Su terre sconosciute.

Anch’io volerò.

Trapasserò 

Gli inferi e i cieli santi

Sperando che sappiano 

Un fulgido mattino

Leggermi dentro.