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“Emanuela Arcangeli, insegnante”

Autore: Luigi Pistillo

Emanuela, insegnante di italiano e latino presso il collegio femminile***cadde in disgrazia per incompatibilità con le colleghe e per certe frequentazioni mal giudicate dai suoi superiori. Il suo interesse, era rivolto tuttavia, soprattutto alla lingua italiana. Un interesse maniacale e nonostante fosse di temperamento mansueto, allorché leggeva o sentiva una sgrammaticatura (“solecismo” come amava dir lei), diveniva una specie di licantropo. Temutissima, non solo dalle discenti, ma soprattutto dalle  colleghe. Perfino  suor Egista, la preside, piccolotta, con un naso a uncino che le conferiva la parvenza d’un rapace, non essendo irreprensibile nella lingua italiana, vivendo nel timore di incappare in un errore, anche di pronuncia, la evitava. E se le capitava di incrociarla emetteva, per il disappunto, uno stridìo maligno. Una volta alcuni colleghi, nel cuore della notte, architettarono uno scherzo. Bussarono col batacchio al portone di casa sua urlando a squarciagola il suo nome. Emanuela si svegliò di soprassalto e, spaventatissima, si affacciò alla finestra cercando di capire che cosa stesse succedendo:

“Che volete, vi pare questa l’ora di svegliare le persone!?”

“Vorremmo che tu scendi, dobbiamo parlarti, è urgente, è importante!”  risposero all’unisono.

“Disgraziati, assassini, avete deciso di ammazzarmi?” strepitò Emanuela.

“Perché?” le chiesero sogghignando

“Che tu scendessi, si deve dire, che tu scendessi!” ribatté inviperita la linguista.

Insomma quella empietà linguistica la fece andare su tutte le furie, al punto che, chiuse le imposte violentemente, ignorò la comunicazione “importante”,  probabilmente non si rese conto neanche di chi l’avesse disturbata. Si coricò continuando a smoccolare per l’imperdonabile sacrilegio.

Fin qui abbiamo delineato il profilo pubblico di Emanuela, ma pochissimi e al di fuori della scuola, conoscevano la sua attività filantropica Non solo era un’abituale donatrice di sangue, nonostante non fosse in perfetta salute, ma facendo parte d’una associazione a favore della Pace, dedicava il suo tempo libero all’insegnamento dell’italiano agli stranieri e anche a quei ragazzi italiani bisognosi di ripetizioni. Convinta pacifista, riteneva che la conoscenza della lingua italiana fosse uno degli strumenti fondamentali per unificare, per  ridurre la conflittualità tra le diverse etnie presenti in Italia, per favorire l’integrazione.

Stimata insegnante, viveva alla cheta come abbiamo visto. Da qualche tempo il suo comportamento, tuttavia, era cambiato: sempre così ligia, cominciò ad assentarsi chiedendo permessi per motivi di famiglia (curioso, visto che una famiglia non l’aveva).  Di solito la sua capigliatura era “scompigliata”, “scompigliata” come la notte dei bravi di Don Rodrigo. Gli abiti, talora persino lisi, il viso naturale privo di artifizi ornamentali. Ora, per converso, si abbigliava con una qualche ricercatezza ed utilizzava il trucco, sebbene leggero e delicato. All’avvio del nostro godurioso novellare si è fatto cenno alla persona “oggetto della sua infatuazione”, ebbene essa possedeva una rustica semplicità che ebbe una forte presa su quella donna complessa, nell’animo della quale, penetrò un turbamento sconosciuto, si aprì un territorio emozionale da esplorare, la voglia d’un lessico amoroso nuovo da assaporare. Emanuela, come abbiamo visto,  era invisa alle colleghe che agugnavano di coglierla in fallo. La Toninelli, pettegola, anziché no (col cavolo che si faceva i c****suoi!), notò che la collèga al mattino, da qualche tempo, prima di entrare in classe andava a fare una capatina negli uffici. Volle capire. Insinuò il sospetto che potesse esserci un suo interesse per l’ultimo ragioniere assunto di piacevole beltà. Emanuela, così poco complimentosa, una volta si lasciò scappare un commento sull’impiegato: “Ricorda l’Efebo di Maratona…”. Dei giorni appresso la Toninelli  intercettò in portineria una busta scritta da Emanuela e indirizzata a***. Giovandosi della cedevolezza del portinaio, un giuggiolone che si fece corrompere dalle svenevoli effusioni della donna, riuscì a leggerne il contenuto: “Tesoruccio mio, purtroppo stasera non potremo vederci, domani ti spiegherò. Ti amo! Tua Emanuela”. Apriti cielo! Questa prova si trasformò in un baleno in un atto di accusa. Il giorno successivo Suor Egista, già informata, convocò tutto il personale docente per una riunione straordinaria. A Emanuela fu chiesta una spiegazione di quell’appellativo affettuoso. La reazione di sconcerto fu superiore a quella del maniaco Rusk, il personaggio di Hitchcock il quale, convinto di non essere sospettato per alcuni femminicidi, viene sorpreso dall’ispettore di polizia mentre sta occultando il cadavere d’una donna. A Emanuela si imporporò il viso e  per l’imbarazzo avrebbe voluto sprofondare. Tentò una timida reazione, ma fu sopraffatta all’istante dal coro iroso delle astanti. Fu sospinta contro il muro, posta in una condizione di minorità anche fisica. Essendo minuta, per la robusta Toninelli non fu complicato avviticchiarla alle braccia da dietro. Poi cominciò a strappare le pagine d’un dizionario di italiano con l’intenzione di fargliele ingurgitare. La preside interruppe la vessazione, non mossa a compassione, bensì perché non vedeva l’ora di arrivare al sodo, di scacciarla: “Professoressa, facciamola breve: la prova della sua riprovevole condotta è inoppugnabile. Lei capisce che…ad ogni modo se lei si dimetterà io eviterò lo scandalo ed eviterò di licenziare l’altra persona”.

Ci si chiederà perché Emanuela subì senza batter ciglio un tale abuso. Beh, ci stiamo riferendo ad un periodo distante, in una piccola località provinciale dov’era impossibile conservare l’anonimato, in cui i mormoratori potevano devastare la rispettabilità di chiunque. Se, in questo caso, aggiungiamo il dettaglio, non trascurabile, del nome della persona amata dalla professoressa, ovvero Giovanna, una delle bidelle, tutto si può comprendere. L’epoca del confino per chi praticava la pederastia, figuriamoci per il tribadismo, non era ancora finita. Le colleghe, per dispregio, quando parlavano tra di loro si divertivano a coniugare i verbi sbagliando e poi sghignazzando: “Alla faccia della lesbica con una s,  ricchiona…ricchiona con due c, ” e simili sciccherie fortificate da una pernacchia. La bidella, coniugata con figli, conservò il posto di lavoro, ma a quale prezzo!? Suor Egista, sobillata dalla Toninelli, si comportò in modo nefando: la costrinse a sottoscrivere una dichiarazione che in sostanza accusava Emanuela di averla plagiata. L’insegnante resistette finché poté al dileggio che, subito dopo l’esplosione dello scandalo si era limitato ai sorrisi beffardi, poi, progressivamente, in aperta avversione con scritte offensive sul muro di casa, gli uomini che le rivolgevano disinvoltamente proposte oscene. Persino i negozianti  le intimarono di non frequentare più  le loro botteghe. Attorno a lei l’atmosfera era pregna di sprezzo, era la strana, la diversa. Si diffuse persino la voce che potesse essere anche pedofila: “quella che fa  le porcherie con le bambine”.

Fu la fine. Raccolti i pochi risparmi che le erano rimasti, trovò l’appoggio d’una lontana parente che viveva nella campagna attorno ad una cittadina non lontana. All’inizio riuscì, impartendo lezioni private a garantirsi perlomeno la sopravvivenza, ma presto la maldicenza la raggiunse e  fu l’inizio della fine. La parente venne a conoscenza dell’onta che pesava sulla sua ospite e con una scusa non volle più ospitarla. Non avendo mezzi di sussistenza il passo verso la più nera indigenza  fu breve. Entrò presto nel giro dei senzatetto. Don Gastone Bonino, prete generoso, longanime, nonostante disponesse d’uno spazio abitativo angusto, la ospitò attirando su di sé le ire dei parrocchiani, consapevoli dell’ignominia che stava ormai travolgendo anche il sacerdote. Emanuela si rendeva conto della gravità della situazione. Sapendo di essere sgradita non volle più essere fonte di conflittualità. Si allontanò e di lei si persero le tracce. Don Gastone, denunciò la scomparsa, si affannò per trovarla…ma senza risultati.

In seguito, in un mattino gelido, fu ritrovata morta stecchita su una panchina. Seduta, ritta, impettita in un estremo sussulto di orgoglio, con la testa leggermente reclinata, gli occhi sbarrati ed il viso coperto di sangue raggrumato; era la conseguenza delle percosse ricevute da un branco di vagabondi che, volendo derubarla e anticipando una sua possibile reazione, l’avevano subito aggredita usando bottiglie e bastoni. Eppure Emanuela non aveva nemmeno cercato di difendersi. Racchiusa in un pianto sommesso di bimba, si era preoccupata, unicamente, di proteggere un libro tenendolo ben stretto con entrambe le mani contro il petto. Era un bel libro con un’elegante copertina intarsiata di motivi floreali.

Uno dei soccorritori per curiosità lo volle sfogliare…e lesse solo due parole: “Amore, Pace!”