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Fino alla fine

Autore: Lorenzo Iannelli

Fino alla fine

“Credimi, non è cattiveria. Ti dirò che mi ha spiazzata, ero convinta che la mamma non l’avrebbe mandata. Lo sai, io li ho sempre accompagnati. Sono stata dovunque con loro, li ho portati anche ad Auschwitz, quattro anni fa. Il futuro della memoria, mi pare si chiamasse così quell’iniziativa del Comune, che per fortuna comprendeva pure Vienna e Cracovia. Che città! Eleganti, proprio belle. Vienna è sempre Vienna, non c’è niente da fare. Invece Cracovia mi ha sorpresa, non mi aspettavo fosse così bella. E sapevi che c’è un museo dove è esposto un quadro di Leonardo? La dama con il visone, o una pelliccia simile. Ah, l’arte italiana…. Ma tornando a noi, stavolta non li posso proprio accompagnare, mi dispiace. Cioè, non tutti. Non posso accompagnarli tutti. Io lo so, Lorenzo, ho esperienza in queste cose, non tutti sono adatti per i viaggi. Lei è meglio che non venga. Meglio per lei, ovviamente. La conosco, da tre anni. Non è adatta…”

Non è adatta… Sembrava stesse parlando di una spazzola per calvi. Linda non è adatta alla gita. Lei la conosce…

“Vedi, si potrebbe sentire a disagio quando le altre si acchittano per la serata in discoteca, dopo la visita alla Mole, come è giusto che facciano alla loro età. E non credi che possa rimanerci male, davanti ai preparativi delle compagne, pronte a scatenarsi in pista, mentre lei starebbe ferma, sulla carrozzella, davanti a tutti? No, è una scena che non mi va di vedere! Mica possiamo impedire a tutte le altre di ballare? Che facciamo, una discriminazione all’inverso? E chi dovrebbe scarrozzarla, in giro per musei? La povera Di Martino, che già la deve portare per la scuola, tra l’aula di sostegno e il giardino, quando il meteo consente di prendere una boccata d’aria, a quella santa collega… Ma vogliamo parlare della difficoltà di trovare un pullman con la pedana, che costa l’ira di dio, che andrebbe ad incidere sulla quota di tutti gli altri? Ti sembra giusto, Lorenzo? Dai, superiamo queste ipocrisie: Linda non è adatta alla gita a Torino, per lei e pure per gli altri, punto!”

“Laganà, la tua disamina è chiara, non c’è niente da dire, direi anzi che non c’è niente da aggiungere…”. Era una delle poche colleghe che chiamavo per cognome, cosa che la infastidiva molto, ma non quanto infastidiva me essere chiamato da lei per nome. Non mi piace creare distanze. Il mio ruolo mi impone di ridurle. I nuovi che arrivano si presentano quasi sempre dandomi del lei, soprattutto se sono alle prime armi. Nutro il fondato sospetto di appartenere ormai a quella categoria protetta a cui i giovani cedono il posto sull’autobus. Ai nuovi che arrivano e si presentano rispondo sempre: “Piacere, Lorenzo. Tra colleghi ci si dà del tu: solleva da imbarazzi e fraintendimenti”. Anche Laganà, quando arrivò qui, una dozzina di anni fa, preannunciata dalla fama di indigeribile che la precedeva, esordì genuflettente: “Molto lieta, Signor Vicepreside, sono Rosaria Laganà. Sono la nuova docente di Lettere. È un privilegio per me conoscerla e svolgere qui il mio incarico. Le chiedo solo una cortesia: la prego di rimarcare, ogni qualvolta lo riterrà opportuno, le mie mancanze. Saranno preziosi richiami alla mia crescita personale”. Nel volgere di poco tempo fu facile rimuovere riguardo e intendimenti, per entrambi.

“Vicepreside, Linda non vuole venire a scuola. Dice che le batte troppo il cuore la sera prima di addormentarsi e la mattina prima di prepararsi. Non succede sempre. Solo quando c’è Italiano. Non dice Laganà. Dice Italiano. Non lo vuole pronunciare quel nome, non vuole sentirlo pronunciare da nessuno. Appena lo sente cambia umore. Professore, mia figlia non ce la fa più. Quando non viene a scuola rende contenta almeno due persone: se stessa e Italiano. Da tre anni si sopportano a mala pena, e nessuna delle due fa niente per nasconderlo. Linda si chiude a riccio, non appena viene coinvolta in qualunque cosa, che sia un’interrogazione o anche solo una domanda da posto, quando c’è lei. Lo sa perché? In tre anni di medie, professore, non c’è stata una sola volta che l’abbia chiamata alla lavagna o le abbia chiesto di avvicinarsi alla cattedra o a lavorare in gruppo. Non ho avuto bisogno di chiedere conferma alle sue compagne, o sui gruppi dei genitori se ciò che mi riferiva Linda rispondesse a verità. La professoressa è stata molto leale, glielo riconosco. Ho perso il conto delle volte che gliel’ho chiesto, tutte le volte che l’ho incontrata. La risposta era sempre la stessa. Non crede, signora, che Linda possa rimanerci male, davanti ai suoi compagni, che devono spostarsi per farle spazio, mentre fa lo slalom tra gli zaini, sulla sua carrozzella, davanti a tutti, per venire alla cattedra o alla lavagna? No, la prego. Sarebbe una scena così imbarazzante, anche per sua figlia, che non mi va di vedere! Non sono venuta a chiederle nulla, professore, non perché non sarebbe giusto intervenire. Non le chiedo nulla perché nel migliore dei casi sarebbe inutile, nel peggiore Linda ne pagherebbe le conseguenze. Manca poco, davvero manca poco, io e mio marito stiamo facendo il conto alla rovescia, e a fine anno scolastico festeggeremo tutti insieme. Lo sa, professore? Abbiamo prenotato un fine settimana a Torino, a luglio, tutti e tre. È una città che avrebbe sempre voluto vedere. Ce lo ha chiesto lei. Il suo desiderio sarà realizzato.”

Sono contenta che stia per finire. Non mi pesa stare in carrozzella. Non mi è mai pesato molto. Quando ci nasci in un modo, ti ci abitui facilmente, senza renderti conto di essere diverso. Te ne accorgi quando te lo dicono gli altri. O meglio, quando te lo fanno capire. Io lo so che sono diversa, mica tutti camminano con la sedia a rotelle. Io ci sono perfino affezionata alla mia. La sera la piego, me la metto accanto, la lucido, me ne prendo cura, come fa papà con la sua bici. Ricordo, fin da piccolina, che smontava la catena, la metteva a bagno nella nafta, ché così si fa, prima di passarci l’olio. Questo era il momento più bello: la bici sospesa a mezz’aria, appesa a due ganci, con il pennellino pronto a lubrificare gli ingranaggi e poi… Che bello quel rumore da orologio da polso, quel tic tac regolare dei denti della catena sulla corona che gira, lubrificata dall’olio e dall’amore di papà, che si dispiaceva di doverla sporcare di polvere e foglie nelle sue uscite domenicali. Io pure ci tengo alla mia decappottabile. Non è proprio all’ultimo grido, ma mi piace così, fa molto pezzo di modernariato, che piace ai vintagisti. Anche a me piace. Non a tutti. A quella di Italiano no. Le dà fastidio. Dice che ingombra, che per le norme sulla sicurezza non va bene, che nelle prove di evacuazione la 3 G arriva sempre per ultima nella zona di raccolta. Anche a me piacerebbe fare più rapidamente e che la mia classe non sia sconfitta nella gara di evacuazione. Magari mi alleno di più, e ai prossimi Safety’s Games puntiamo al podio…

Non manca molto. Marco lo sa da un po’. Gli ho fatto giurare di non dirlo a nessuno. Non prima di avermi ripetuto un’infinità di volte che la mia decisione non aveva senso. Poi si è rassegnato, come me. Mi ha confessato che non può sapere quello che provo, che non lo può capire fino in fondo. Non condivide, ma comprende e non insiste. Lui non ha mai vissuto quello che ho vissuto io. Negli ultimi tre anni. “So cosa significa essere non vedente, lo preferisco ad essere non camminante”. È il mio migliore amico per questo. È spietato. Non ha pietà di me, non la prova, non me la dimostra. Non la sento, la sua pietà. Quella degli altri sì. Quella mi fa sentire una disabile.

A luglio andremo a Torino. Che bello! C’è l’ascensore che mi porterà su. Pare che dalla Mole antonelliana ci sia un panorama mozzafiato. Anche la collina di Superga si vede da lì. Voglio che mi rimanga impressa come ultima immagine, nei miei occhi e nella mia anima. Lì è stata resa eterna la leggenda del Grande Torino. Dove la vita ha lasciato posto al mito. Eroi diventati supereroi. Per tutti. Fino alla fine.

 

Descrizione dell'Opera: L'inclusione, questa sconosciuta... Siamo spesso vittima dell'incapacità di accogliere la "diversità", concependola come fastidiosa difficoltà, talvolta gestita nel peggior modo immaginabile. Di contro, altre volte produce arricchimento e bellezza in chi ci si imbatte: la differenza la fa chi la fa vivere come problema o come opportunità.