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Il nulla e l’Infinito

Autore: Domenico Romano Mantovani

Il nulla e l’infinito

Lo studio medico è affollato. Ne approfitterò per sfogliare qualche vecchia rivista, abbandonata sul tavolino. Un uomo con una faccia da tanghero mi fissa con insistenza. Lo conosco? Mi sforzo di leggere, ma le parole restano sulla carta. Quello sguardo mi intimorisce.

«Noi ci conosciamo» esclama infine rivolgendosi a me con un sorriso arrogante.

Ho capito chi sei, mascalzone! Sei cambiato, invecchiato, come me; ma l’espressione da carogna l’hai mantenuta. 

«Prego?»

Di colpo, mi ritrovo a somatizzare la stessa ansia che mi prendeva da ragazzo. Mi manca il respiro.

«Ti ricordi di me?» domanda la belva.

Prima di pronunciare quelle parole, avrà di sicuro pensato: “Ma guarda chi si rivede! Il principino”.

Vorrei fuggire per sempre.

«Scusi, ma non credo ci conosciamo.»

I ricordi riappaiono con crudeltà. Le umiliazioni erano continue: calci, pugni, abiti strappati, furti. Non avevo più un astuccio né un diario. Ero la vittima perfetta di un bullo e dei suoi gregari. Sarebbero passati anni, prima che gli abusi subiti si diluissero in me in un lento oblio. Ma oggi, in questo asfittico ambulatorio, registro che i fantasmi vagano ancora nella mia coscienza.

La canaglia fiuta nell’aria il mio disagio. 

«Suvvia, non ti ricordi?»

Quegli anni giovanili non li avevo vissuti davvero. Erano il mio nulla, mentre subivo in silenzio costanti abusi. Nulla volevo sapere di me. Nulla di me volevano sapere gli altri.

«Ma dai, sono Denis.»

Fingo di pensarci su.

«Ah, Denis. Come stai?»

L’indegno figuro mi viene incontro. Sorride, la barba incolta e grigia, una bocca grande che sa di alcol.

Quante volte avevo sentito le sue manacce su di me, fra le risa dei compagni di classe. Per loro non c’era nulla di male. Io per loro ero un nulla.

Sono certo che non dichiarerà apertamente i suoi pensieri. Perfido ora come allora, funambolo della finzione, cercatore di consensi, non dirà quel che pensa. Dirà tutt’altro, assumendo le sembianze dell’agnello di fronte a tutti. Nell’ambulatorio c’è troppa gente che lo osserva.

“Eccoti qui, principino” penserà. “Quante volte te le ho suonate”.

Invece esclama: «Ti trovo bene, caro.» 

E aggiunge: «Come mai sei qui?»

L’angoscia tappezza di foglie morte la mia ira, incapace di esplodere.

«Sono un informatore scientifico del farmaco.»

«Rappresentante.»

«Sì, quella roba lì.»

«Che bravo!»

In realtà starà pensando: “Per essere un rammollito ha fatto strada.”. Ne sono certo.

Le sue parole sono uno sberleffo all’onestà del dire. Io faccio altrettanto. Entrambi sfoderiamo pensieri ignoti all’avversario, ma autentici; frasi pronunciate, ma false. Tutto si gioca tra velocità del pensiero e lentezza della parola. I pensieri sono raggi di luce, folgorazioni delle sinapsi; le parole sono lumache fonetiche, inganno dell’eloquio. È la strana alchimia del linguaggio umano.

Guardami pure, farabutto. Sono io. Mi sono salvato, ma ho rischiato di morire. La lavanda gastrica, dopo l’ingestione dei barbiturici di mia madre, fu un epilogo che non desideravo. Volevo davvero morire e mi disperai per essermi salvato.

Mi decido a domandare, anche se vorrei mandarlo al diavolo.

«Tu cosa fai?»

«In questo periodo nulla: sto male.»

Non vedo l’ora di entrare dalla dottoressa. È una mia amica.

Una volta tornai a casa così malconcio da fare paura. 

«Non dirmi nulla» disse mio padre. «Impara a difenderti.» 

Impietosito, si degnò poi di chiedere: «Cos’è successo?» 

Lo ripagai con la sua stessa moneta.

«Nulla, non è successo nulla.»

Il nulla è un’incognita perenne, che in noi si scontra sia con l’essere sia con il linguaggio come modo di essere. Negli anni, ho provato a chiedermi che idea noi abbiamo del nulla. Lo immaginiamo immobile, inefficace e senza tempo: negatività. E riconosco che così mi sentivo da ragazzo: morto. Invece il nulla, che a noi sfugge come concetto, credo sia carico di infinito. L’infinito è materia in continua espansione, costante divenire generato dall’infinità del nulla. Noi veniamo dal nulla e apparteniamo alla vita dell’universo. Dovremmo essere di questo orgogliosi e percepirne la forza generatrice. 

Purtroppo, dimora in noi anche una sottile contraddizione. L’essere, che è vita, nell’esperienza che ne facciamo può sempre ritornare al nulla. Vogliamo vivere, ma facciamo purtroppo continue esperienze di morte. Vogliamo affermarci, ma siamo ricacciati indietro. Lo stesso accade con il linguaggio. Pensiamo una cosa, ne diciamo un’altra. Pensiamo la verità che è per noi, diciamo la falsità che è per gli altri. È così che il pensiero si annulla.

Questo accade non solo in condizioni conflittuali o di stress. Anche l’amore può nascondere l’inganno; così come la buona educazione, i secondi fini, la vanagloria. La finzione annulla l’essere.

Ebbene, io credo che in tutto questo il nostro corpo possa avere una funzione risolutiva. Il corpo vive un’immediatezza costitutiva. Il corpo genera vita, crea, aiuta, trasforma. Il corpo non pensa, non parla, ma solo agisce.

Certo, può agire anche malamente e in combutta con la morte. Ma possiamo insegnargli a non offendere un altro corpo: umano, animale o vegetale che sia. Possiamo insegnargli l’unicità dell’azione buona.

Avete mai pensato al potere di un atto d’amore disinteressato? A un atto eroico per difendere qualcuno o qualcosa? Si agisce senza pensare.

Denis ha lasciato lo studio medico. Dopo di lui tocca a me. Con la dottoressa parliamo di lavoro, ma poco. Mi vede smarrito. 

«Stai bene?»

«No.»

Di me sa tutto.

«Cos’hai?»

«Ho voglia di uccidere. Ma forse sono io che non voglio più vivere.»

«Smettila di dire idiozie. Cos’hai?»

«Chiedilo al paziente che è appena uscito. È Denis.» 

«Non dirmi che si tratta di quel bullo di cui in passato mi parlasti.» 

Annuisco naufragando in un profondo smarrimento.

«Allora stai tranquillo» sussurra sconsolata.

«Che intendi dire?»

Tace.

«È grave?» 

«Non posso parlare.»

«Cancro» provo a indovinare.

«In nome della nostra amicizia, ti prego di lasciare lo studio. C’è il segreto.»

«Ai polmoni… Puzzava di alcol, ma ancor più di fumo. Due dita le aveva gialle di nicotina.»

«Io non ho parlato.»

«Sei mesi?»

«Anche meno» è la risposta scheletrica. 

Esco dall’ambulatorio sbattendo malamente la porta. Forse sono in tempo per beccarlo. Voglio augurargli la peggiore delle morti. Sarà questa la mia vendetta. 

Lo scorgo fra i passanti. Il mio conto di odio attende. Nella tasca della giacca stringo con inquietudine un flacone.

«Ehi!»

Si volta. È smarrito, pallido, affranto. 

È un attimo, tutto accade in un solo attimo. Fisso i suoi occhi; e in quel momento non so più che cosa pensare di quel poveraccio. Sono sfinito, imploso nel mio stesso rancore.

Restiamo uno di fronte all’altro, in silenzio, entrambi disarmati, aggrappati a uno sguardo metafisico. 

«Portami a casa, principino» sussurra. 

Non sento più la sua voce bugiarda. Vedo una corporea presenza e ascolto autentiche parole. Il corpo emerge nella sua integrità, contro ogni finzione.

Ricordate? L’essere può sempre ritornare al nulla. Vogliamo vivere, ma facciamo esperienze di morte. Lo stesso accade con il linguaggio. Pensiamo una cosa, ne diciamo un’altra. Pensiamo la verità che è per noi, diciamo la falsità che è per gli altri.

E poi c’è il corpo, immediato, capace di amare. Il corpo che non pensa. Il corpo che compie atti. Se atti davvero buoni non sta alla singola coscienza decidere, ma all’etica universale degli atti. C’è una bontà che supera la soggettività.

«Quanto tempo?» domando.

«Per me il tempo non ha più valore.»

«Sapevi?»

«Poco. Il resto uno se lo immagina.»

«La dottoressa è mia amica. Non mi ha detto nulla: segreto professionale. Ma sono del mestiere.»

«Portami a casa, principino. Ti mostrerò i miei ricordi, mi rimboccherai le coperte e morirò in pace, se vorrai perdonarmi.»

Sento quelle parole nella loro interezza per quel che sono, senza alcun inganno. Sono parole fattesi corpo.

Estraggo lentamente dalla tasca il mio flacone. 

«Tieni: una capsula due volte al giorno. Non fa miracoli, ma aiuta. Però dovrai fare anche la chemio.»

Denis è disorientato. Vorrebbe comprendere il senso del mio gesto. È la mia mano che agisce, il mio corpo: sono io. 

Si appoggia a me, ma di quel corpo non sento alcun peso. È un semplice corpo, ricomposto nella sua umanità. I nostri corpi agiscono nella loro autenticità, senza pensare e nemmeno dire.

Denis si accascia sul sedile della mia auto e una lacrima solca quella faccia da tanghero.

Sono passati  sei mesi: un tempo interminabile. Denis non c’è più. 

La mia non era una vera medicina, ma un placebo. Era solo una goccia di compassione, affinché quell’uomo potesse vivere nella speranza di rimanere su questa terra un po’ più a lungo. Purtroppo, per il suo male non c’era davvero nulla da fare. Se ne è andato serenamente. E io custodirò il suo ricordo. 

Non so se questo si chiami perdono. Forse è solo la svolta che aspettavo da sempre. 

Ecco, nella calma dell’atto, il corpo riunisce il nulla e l’infinito, per diventare amore. Amore di cui ancora nulla sappiamo, perché la sua consistenza è ancora tutta da scrivere.

È un attimo, solo un attimo, di quell’infinito che siamo.