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Il pallone

Autore: Alberto Favaro

Il pallone

“Tira Andrea, tira!” urla Davide. Non me lo faccio ripetere due volte. Da quando son venuto ad abitare qui, nella vecchia casa dei nonni, è la prima volta che i ragazzi mi permettono di giocare con loro.

E solo per due motivi. Il primo è che ho promesso a Davide, l’unico del gruppo che in questi mesi ha provato a diventare mio amico, di regalargli un vecchio numero di “Topolino”.

Il secondo, ma questo l’ho capito solo da qualche minuto, è perché si sono accordati di non passarmi mai la palla. Non che la cosa mi sconvolga. L’importante è esserci. Prima o poi mi accetteranno anche se non sono cresciuto con loro. In fondo papà era originario di qui e pur essendosene andato quando era bambino, qualcosa in comune con questi bambini devo pur avercelo. Dobbiamo solo trovare il modo di scoprirlo.

La palla è qui davanti a me per un puro caso. Un rimbalzo fortunato. Sono solo davanti al portiere. Il tempo sta per finire. Se segno divento l’eroe della giornata.  I piccoli che pareggiano contro i grandi. Non è mai successo. Ci metto tutta la mia forza. Devo segnare e voglio impressionarli.

Ci riesco. A impressionarli. La palla si impenna. Sembra non voler più terminare il suo volo.

Tutti guardiamo dove va a finire. Lontano. Sempre più lontano. Rimbalza. Si impenna di nuovo. Scavalca il muro di una villa.

“Ecco!” dice Checco, il ragazzo più grande di tutti “lo sapevo che il ciccione non doveva giocare. Era impossibile che non facesse un guaio. Perso il pallone nuovo. E adesso?”

“Dai, può succedere” risponde Davide. Credo abbia paura di non avere il “Topolino”. O forse veramente vuole essere mio amico? In fondo siamo molto simili, grassi, con gli occhiali, timidi, negati per gli sport.

“Ciccione hai i soldi per comprare un pallone nuovo?” mi dice Checco senza considerare le parole di Davide.

“Ma non basta suonare e chiedere che ce lo diano?” rispondo.

“Certo, come no. E io sono Sandokan. Pensa a trovarci un pallone per domani” mi ordina prima di saltare sulla sua bici da cross seguito da tutti gli altri.

Solo Davide resta con me. Lui la bici non ce l’ha. Come non ce l’ho io. Ci avviamo verso casa.

“Certo che hai fatto un bel casino” mi dice.  “Erano anni che non finiva nella casa maledetta. Però dai, un pallone non costa così tanto”.

“La casa maledetta?”

“Non dirmi che non lo sai. Perché pensi giochiamo qui e non davanti alla casa dove ci sarebbe anche più spazio? Quella casa è abitata da fantasmi. Nessuno osa avvicinarsi. L’ultimo che ha provato a entrarci è stato Checco qualche anno fa per recuperare un pallone e ne è uscito vivo per miracolo. Sento la mamma che mi chiama. Meglio se corro. Il “Topolino” me lo darai domani. Ciao Andrea!”.

Davide se ne va provando a correre per quel che gli riesce. Io salgo a casa. La mamma non è ancora tornata. I compiti li ho finiti. Mi metto a leggere. Faccio fatica. Le parole di Davide continuano a girarmi per la testa.

“I fantasmi… La casa maledetta…Il pallone”.

Meglio non incontrare i fantasmi. Se voglio ancora giocare con loro devo comprarne uno. Chiederò i soldi alla mamma. Un regalo di compleanno in anticipo.

Suona il telefono. Mamma risponde. Non l’ho neppure sentita arrivare.

“Ciao Anna. No, non va bene… Andrea non ha amici, io non ci sto con le spese. Mi serve un aiuto. Quanto vorrei non essere venuta qui. Non conosco nessuno, ma era l’unica casa gratis. No, no. Conosco bene la tua situazione. Ti ringrazio Anna. Vado a preparare la cena. Per fortuna Andrea mangia di tutto. Tanto ma di tutto”.

Non posso chiederle soldi. E se vendessi il “Topolino”?

No. L’ho promesso a Davide. Ho un solo amico qui. Non posso deluderlo.

E poi i fantasmi non esistono! Vado a prendere il pallone e non ci penso più.

“Mamma esco un attimo. Torno subito!”.

Vado prima che mi risponda. In cinque minuti sono alla villa. Suono. Non apre nessuno. Suono un’altra volta. Niente. Guardo il muro. Non è così alto. Potrei scavalcarlo.

Certo. Facile con la mia agilità. E adesso?

Mi appoggio al cancello. Si apre. Il pallone è davanti a me. Anzi ce ne sono due. Uno è sgonfio. Chissà da quanto tempo è lì. Son solo una decina di metri. Entro di corsa. Afferro il pallone nuovo. Mi giro. C’è un cane davanti a me. Ho paura.

“Ehi”. Una voce alle mie spalle. Guardando il cane lentamente, mi giro. È papà.  Sta venendo verso di me. Ma non può essere papà. Lui è morto. Comincio a correre. Papà è vicino a me. Sta per toccarmi.

“Io non voglio morire, Non voglio morire!” urlo.

Tutto gira attorno a me. Tutto diventa nero.

Apro gli occhi. Sono a letto. Mamma mi sta accarezzando la fronte.

È stato solo un incubo. Mi guardo in giro. Non è la mia camera! Vicino alla mamma vedo un’ombra.

Guardo meglio. Papà!  Urlo con tutto il fiato che ho in gola. Mamma mi stringe forte.

“Andrea calmati” mi dice. “Lui è Beppe. Tuo zio. Il fratello di papà. Non lo avevo mai incontrato neppure io. Non sapevo fosse venuto a vivere qui e lui non sapeva che lo avessimo fatto anche noi. Se non avesse trovato il nostro numero di telefono nei tuoi pantaloni non lo avrebbe mai scoperto. Ora dormi. Domani ti racconterò tutto”.

Escono. Vorrei alzarmi. Non ci riesco. Mi addormento pensando che i morti non possono farlo.

Quando mi risveglio trovo la mamma vicino al letto. Lo zio Beppe è con lei. Mi porge una fetta di pane col burro e lo zucchero.

“Grazie. La mia colazione preferita. Lo sai che sei uguale a papà?” gli dico.

“Lo so. E non solo nell’aspetto. Entrambi troppo orgogliosi per riappacificarsi. Abbiamo alzato un muro che ci ha separati per sempre. Ora ci siete voi. Farò il possibile per rimediare”.

Io non capisco bene cosa vuol dire. La mamma sembra felice. Non la vedevo così da tanto tempo. Allora sono felice anche io.  Restiamo tutta la mattina dallo zio. La mamma a parlare con lui. Io a giocare con Toto, il cane più affettuoso del mondo, chiedendomi come poteva essermi sembrato aggressivo. Prima di andare via vedo il pallone. “Zio posso prenderlo?” gli chiedo.

“Certo. Se vuoi anche l’altro che è qui da qualche anno. Nessuno è mai venuto a prenderlo”.

Prendo solo quello nuovo. Quando esco dal cancello vedo i ragazzi. Stan giocando a ruba bandiera.

“Va’ a divertirti. Io corro al lavoro” mi dice la mamma andando verso il centro del paese.

Solo Checco mi ha visto uscire dalla casa. Potrei dire ai ragazzi che si è inventato tutto, che non è mai entrato qui, che i fantasmi non esistono. Ma cosa cambierebbe per me? Gli farei solo del male.

“Andrea dai vieni. Ci manca uno!”. La voce di Davide. Ma non può stare zitto una volta ogni tanto?

“Ecco il pallone nuovo!” urlo. Con un calcio lo tiro verso di loro. Mi allontano lentamente.

Dopo qualche secondo, sento una mano sulla spalla. É Checco.

“Ciccione, volevo dirti una cosa” mi dice.

“Sì?” rispondo.

“Grazie”. Non gli dico nulla. Non ce n’è bisogno. E poi non posso pensare troppo.  Un portiere deve stare attento. Sempre. È il ruolo più importante in una squadra.

“Davide, copri la fascia. Coprila! Bravo Davide! Così”.