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Racconto

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Il pendolare

Autore: Franco Porchetti

IL PENDOLARE

Lo scompartimento traballava sulle rotaie mutilate dalle bombe. I sedili sfondati accentuavano il disagio rassegnato e silenzioso dei suoi occupanti. La giovane donna con in grembo il figlio neonato avvolto in una coperta della Croce Rossa. L’uomo anziano dai capelli lunghi e bianchi chino sulle pagine di un libro dalla copertina logora. Il militare assopito col basco sulla fronte, le gambe distese, gli scarponi sfondati in bella vista. Il sacerdote dalla tunica lisa e orba di numerosi bottoni intento a recitare tra se e se l’omelia della domenica. La ragazza di campagna con il fazzolettone in testa, le guance rosse e l’espressione contrita che hanno tutti quando salgono per la prima volta su un treno.
L’unico posto libero era occupato da cappelli, fagotti, borse, giacche, fiaschi di vino, salami, pane… Cosicché, quando alla fermata di Chiusi fece la sua comparsa il sesto passeggero, un uomo piccolo e calvo, tutti fecero finta di non vederlo.
“Mi spiace, ma è l’unico posto libero in tutto il vagone” si giustificò il nuovo arrivato con voce suadente.
Un silenzio pesante come il piombo fu la risposta dello scompartimento. Ma il piccolo uomo non si perse d’animo. Mise un piede dentro per vanificare qualsiasi tentativo di chiuderlo fuori, e poi tornò a far sentire la sua bella voce: “Non ho bagaglio, sono un pendolare, passo metà della mia vita sopra a queste carrette su rotaie, e indovinate che cosa ho imparato in tutto questo tempo?”
L’uomo anziano alzò gli occhi dalla pagina per rispondere: “A leggere libri?”
“Anche quello. I primi anni da pendolare non facevo altro, ma poi ho capito che potevo fare di meglio.”
“E cioè?” fece la mamma del neonato. Quel piccolo uomo le ispirava fiducia, non sapeva perché.
“Dovete indovinarlo, è facile.”
“A suonare la chitarra?” provò la contadina arrossendo ulteriormente. Anche a lei piaceva quell’uomo dalla voce morbida.
“Ci ho pensato, ma portarsela dietro non è facile per un operaio come me.”
Il sacerdote si alzò e ritirò le sue cose dal sedile libero. Uno dopo l’altro, gli altri passeggeri lo imitarono.
L’operaio pendolare si sedette e riprese a parlare: “Come si chiama il pupo?” fece alla giovane mamma.
“Eduardo, come il nonno paterno” rispose la donna, compita.
“Bellissimo nome. Viene subito in mente il grande Eduardo De Filippo. Una volta ho avuto la fortuna di viaggiare con lui, proprio come oggi con voi.”
“E come è?” aprì occhi e bocca il militare.
“Una persona vera, semplice pur nella sua grandezza di artista. Mi ha confessato che non parlava così a lungo con qualcuno dai tempi della scuola.”
“Mi sarebbe piaciuto esserci.”
“Stai tornando a casa dal fronte?”
“Sì, sono in licenza: mi sono beccato una scheggia in una spalla.”
“Una scheggia di cosa? Dicci come è andata… come ti chiami?”
“Mi chiamo Alberto.”
“Bene Alberto, raccontaci come ti sei beccato la scheggia nella spalla. Eri in trincea?”
“No, ero in motocicletta, faccio il porta ordini. Dovevo recapitare un ordine del generale… di un generale, quando un aereo nemico ha sganciato una bomba proprio sulla strada che stavo percorrendo, cento metri davanti a me. Ha colpito e fatto esplodere un’autocisterna piena di benzina. Ho visto volare pezzi di lamiera più grossi di me in tutte le direzioni, poi ho sentito un sibilo e subito dopo un dolore lancinante alla spalla: un pezzo del parabrezza del camion me l’aveva passata da parte a parte, come un proiettile… ma è stata la mia fortuna… nella disgrazia.”
“Questo è sicuro, non ti ha provocato infezioni e te la sei cavata.”
“Sì, ma ero solo, e sarei morto dissanguato se non mi avesse soccorso una brava donna in bicicletta che avevo sorpassato qualche minuto prima. Avevo perso i sensi e quando ho riaperto gli occhi, il suo dolce volto sopra di me mi ha fatto credere di trovarmi in paradiso al cospetto della Vergine Maria.”
“Era così bella?” intervenne il sacerdote.
“Per me, era meravigliosa. Lo stesso sguardo di mia madre, la stessa pelle bianca, la stessa espressione sul viso.”
“La Madonna è la madre di tutti noi, l’unica che ci perdona sempre e ci aiuta nel momento del bisogno come tutte le madri aiutano i propri figli” disse il sacerdote come se parlasse dal pulpito della sua chiesa.
L’uomo anziano alzò gli occhi al cielo, ma non alla ricerca della Madonna. Poi disse: “Quella donna ti è parsa così bella, ragazzo mio, perché era bello quello che stava facendo.”
Per lui la vera madre dell’umanità era la Terra e l’unico miracolo a cui credeva era quello della vita.
Il sacerdote lo guardò con curiosità, come se lo vedesse per la prima volta.
“La guidava la Madonna” disse, tanto per avere l’ultima parola.
“Forse, la bicicletta…” mormorò l’uomo anziano.
Il sacerdote fece finta di non aver sentito. Come quasi tutti i ministri di dio, sapeva tacere quando era conveniente. Già dalle prime parole aveva capito che quell’uomo non era un credente. E l’esperienza gli aveva insegnato che non bastano le parole di un prete per far cambiare idea a un uomo adulto.
“Posso chiederle che libro sta leggendo? Forse l’ho letto anche io” fece il pendolare all’uomo anziano.

“Il cappotto, di Gogol. Sarà la quindicesima volta che lo leggo. Ogni tanto sento il bisogno di rileggerlo.”
“Posso capirla, anche io l’ho letto più volte. Quel racconto ha un fascino tutto suo.”
“A me piace soprattutto ritrovare la scrittura di Gogol, il suo stile. Lo trovo divertente.”
È la sua forza: mostrare le miserie umane senza perdere leggerezza.”
“La leggerezza è la mia preferita. Da un libro mi aspetto che mi faccia volare non sprofondare agli Inferi.”
“Le posso chiedere che cosa fa nella vita?”
“Ero maestro d’orchestra prima della guerra.”
“Che bello!” commentò di colpo la ragazza di campagna “mi piacciono le bande, con la divisa, le trombe, i tamburi… mi piacerebbe tanto saper suonare uno strumento…”
“La musica rende felici, signorina. E fare musica equivale a donare gioia agli altri e a se stessi. Se lei è così desiderosa di fare musica, la faccia. Basta avere la voce, per cantare” le rispose l’ex maestro d’orchestra.
“Senza musica?”
“La voce basta e avanza. Mi creda, signorina. Le nostre corde vocali sono uno strumento molto duttile ed espressivo.”
“Mi chiamo Teresa, mi chiami per nome, per favore, non signorina: non sono abituata.”
“D’accordo, Teresa, ti esorto a cantare. Se ami la musica, di sicuro sai farlo… sbaglio?”
“Sì, è vero, canto spesso… ma non so se canto bene.”
“Non è importante, cantare fa bene a prescindere.”
“Anche a me piace cantare” s’intromise il militare “prima della guerra cantavo nel coro…”
“Della parrocchia?” lo interruppe il sacerdote.
“No, del battaglione” concluse Alberto, leggermente infastidito.
“Tenore?” chiese il maestro di musica.
“Sì, come ha fatto a capirlo?”
“Un po’ di orecchio ce l’ho ancora.”
“Perché non cantiamo qualcosa insieme, allora?” intervenne il pendolare “tipo: quel mazzolin di fiori… che vien dalla montagna…” intonò.
La ragazza di campagna non si fece pregare e aggiunse la sua voce fresca e squillante a quella del pendolare. Poi si unì a loro il maestro, facendo i gesti tipici di chi dirige un’orchestra con una bacchetta immaginaria. Il militare si alzò in piedi e fece sentire la sua voce tuonante. La mamma del neonato di nome Eduardo non cantava ma sorrideva come non le succedeva più da anni. Il prete, sciolti finalmente il legacci del ruolo, si mise a cantare con quanta voce aveva in corpo.
Roma Termini. Stazione di Roma Termini.”
La voce nasale degli altoparlanti invase lo scompartimento. Tutti si zittirono interdetti e stupiti.
Siamo già arrivati?” fecero in coro.
Tutti tranne il pendolare metalmeccanico che si compiacque di rispondere: “Sì, siamo già arrivati.”