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La signora di San Giovanni

Autore: Domenico Romano Mantovani

La signora di San Giovanni 

Mia figlia Ruth si era trasferita da poco in Italia e fu lei a dirmi che forse Romelda era viva. 

Ne avevo perso le tracce quarantacinque anni prima. In cuor mio non avrei desiderato nulla di più dalla vita se non apprendere che Romelda era viva. Ma non ci avevo più sperato. 

La nostra era stata un’amicizia profonda. Eravamo giovanissime e tutto ci univa, anche il violino. 

Ruth era venuta a trovarmi a Chişinău, in Moldavia, dove mi ero ritirata dopo una vita di concerti. «In Italia ho ascoltato per caso una violinista» mi racconta. «Ti somigliava: lo stesso tocco… e forse la tua stessa età.»

«Sarà stata una dei nostri» osservo. «Il regime ci aveva lacerati e il desiderio di libertà sanguinava dalle nostre vene. In quegli anni furono in molti a partire.»

Ruth sembra voglia dirmi qualcosa di importante.

«Suonava per strada» incalza. «Vicino a un canale che guarda diritto il mare.»

«Mi dispiace» dico con rammarico. «Io sono stata fortunata.»

«Durante una pausa si è accomodata al tavolino di un bar» insiste Ruth. «La barista l’ha chiamata Romelda, proprio Romelda.» 

Mi fissa. Mi manca il respiro. Di Romelda lei sa tutto. Sarebbe un miracolo sapere che è ancora viva, ma non voglio illudermi.

La barista aveva chiesto all’anziana violinista se avesse ancora qualcuno in Moldavia, continua a raccontarmi Ruth. “Io non ho famiglia” era stata la triste risposta. “Il violino è la mia famiglia”.

Era il nostro motto: il nostro! “Il violino è la mia famiglia”. 

Quanto ti ho cercata, amica mia. Quanto ho sofferto per aver tradito la tua fiducia. Ruth era bambina e sovente mi vedeva piangere sotto la finestra del soggiorno, mentre fissavo in lontananza la cupola del circo di stato: un edificio immenso, nel quale avrei voluto suonare in quei giorni con te. Ma tu già non c’eri più. Caduto il regime, nel tempo poco del circo è rimasto; così come poco è rimasto in me del tuo ricordo. Sono solo briciole.

Quante ore avevamo trascorso insieme all’Accademia di musica! Le gemelle, ci chiamavano. Eravamo inseparabili, gemelle anche nel suonare: brave entrambe. Anche la rosolia ci aveva unite, così come l’infatuazione per lo stesso ragazzo, poi svanito anche dai ricordi. 

I miei genitori se la passavano bene, i tuoi no. Mio padre era invischiato col regime; il tuo passò fra i dissidenti del Fronte Nazionale Patriottico, che propugnava la creazione di una Repubblica Democratica Moldava. Con sacrificio, i tuoi ti comprarono un violino insignificante, che andava bene solo per lo studio. Perciò, in occasione degli esami all’Accademia, ti passavo il mio violino di pregio, costato una fortuna. 

Fu quel violino che ci accompagnò durante un’audizione per due posti nell’orchestra nazionale. La tua fu un’esibizione brillante, ma scelsero me. Quanto piangesti abbracciandomi forte. 

Fu allora che da un giorno all’altro sparisti e di te nulla più se ne seppe. Tuo padre finì nella clandestinità. Tua madre perse il lavoro. Io partii per la prima tournée. Era 1973.

Finalmente libera dalla mia attività concertistica, sono andata a trovare Ruth in Italia con un’idea fissa nella testa. 

Mi dirigo verso il canale che guarda diritto il mare. Nessuno suona.

Ho chiesto in giro. Non saprò mai se davvero sei tu se non ti sento suonare, non ti parlo. Io sono cambiata, invecchiata. Anche tu lo sarai; se sei tu. In città ti chiamano “la moldava”; altri “la signora di San Giovanni”, il vecchio manicomio che ora ospita un Centro di Salute Mentale. 

Il dolore per la tua scomparsa non mi lasciava riposare. Ti ho amata molto. Non so perché. Non so perché un’amicizia possa essere così profonda. Era nei geni della vita, nell’odore della pelle, negli ideali che fanno crescere.

Ho rintracciato la stessa barista, di cui Ruth mi aveva raccontato. 

«Quando è freddo gira poco in città» mi dice

«E se non è freddo?» le chiedo.

«Spesso suona vicino al mio bar, ma anche altrove. È un vero piacere ascoltarla. Non capisco come una così sia finita per strada.»

Romelda, sei tu. Sei tu! 

Quante ore abbiamo suonato insieme scambiandoci i due violini, il mio di valore, il tuo… beh, lasciamo perdere. Ma non era colpa tua. Il mio te lo avrei donato, se tu non fossi fuggita. 

Ti cercammo dappertutto. Pretesi che mio padre scomodasse le sue conoscenze. Eri pur sempre la figlia di un dissidente. Ma tutto fu vano.

Solo anni dopo scoprii che cosa aveva combinato mio padre. Erano giunti ordini dalle autorità; e lui fece la sua parte. L’audizione per l’orchestra era pilotata. La figlia di un dissidente non poteva far parte dell’orchestra di stato. Presero me e un altro violinista protetto dal regime.

Lasciai la mia famiglia. Non potevo più restare in quella casa. Negli anni sono sempre andata mal volentieri a trovare mio padre.

In città mi hanno indicato alcuni luoghi dove la violinista si esibisce di frequente. Non ho trovato nessuno. 

Una mattina passo per caso vicino a una candida piazzetta. Un’anziana donna è seduta a una panchina. Accanto trattiene la custodia di un violino. La fisso. Mi fissa. Prepara il leggio, prende lo strumento, sistema la custodia per le offerte. Suona. La piazzetta è deserta. Suona ugualmente. Qualcuno passerà.

Romelda, sei tu. Lo so che sei tu. Anche se fatico a riconoscere il tuo aspetto. Solo tu sai suonare così.

Termina il suo pezzo. Mi avvicino. 

«Romelda?»

«Sì.»

«Sono Nadja.»

«Nadja» ripete.

È disorientata. Il viso è scarno, l’abito povero ma dignitoso. I suoi occhi vagano nel tempo, perché la signora di San Giovanni a volte si rifiuta di ricordare. Al Centro di Salute Mentale lo sanno.

Le tendo una mano. È titubante. Me la stringe. Sentiamo il calore della carne.

«Sei Nadja?» 

«Te l’ho detto. Sono Nadja.»

«Io sono Romelda.»

«Lo so.»

Cerco il suo corpo. Lei resiste. Quanto ti ho cercata, amica mia. Sei parte della mia vita.

«Non voglio vederti» sussurra al mio orecchio.

«Non fu colpa mia.»

«Tradisti la mia fiducia. Vattene.»

«No! Io resto qui.»

«Vedi come nel tempo mi son ridotta per colpa di tuo padre? Il regime mi ha uccisa.»

«Lo scoprii anni dopo: non sapevo.»

Mi respinge.

«Io lo scoprii quasi subito» sussurra con rammarico. «La figlia di un dissidente non meritava nulla. Avevano già deciso a tavolino che non sarei passata all’audizione. Non posso perdonarti.»

«Non fu colpa mia» insisto con disperazione. «Ma ti chiedo ugualmente di perdonarmi.»

Romelda mai mi perdonerà. Vorrei fare qualcosa di importante per lei, riconquistare la sua fiducia. Ma non si può varcare il pudore di una vita, umiliata dalla cattiveria umana.

La rivedo i giorni seguenti. Le offro un pranzo, poi un altro, qualche cena. Ci viene volentieri.

«Rinunciai a qualsiasi audizione» racconta «e mi imbarcai su una nave da crociera, dove suonavo in un quartetto. Un giorno approdai qui, e ci rimasi. I miei genitori non li ho più rivisti. Morirono anni dopo.»

La sua poteva essere tutt’altra vita. Romelda era un vero talento. 

«Perché ti chiamano la signora di San Giovanni?» mi permetto di domandare.

I capelli candidi le donano. Non sembra triste, depressa, invece…

«A San Giovanni ci vado spesso. Mi trascino una brutta depressione, che da quei giorni lontani continua fra alti e bassi. Non mi meritavo una vita così.»

Ci abbracciamo di frequente. Le lascio dei soldi. Non vuole che vada a trovarla a casa: vive in un misero monolocale. Voglio che venga a vivere con me.

Sono giorni che non si fa vedere. Ho chiesto in giro: nulla. Sono stata a San Giovanni. Era lì. Ritrovarmi le aveva sconquassato il cuore. La crisi era stata severa.

Ci sediamo in giardino.

«Voglio provare a fidarmi ancora di te» sussurra. «Portami via.»

«Decidono i medici.»

«Firmo.»

«Non puoi. Per il tuo caso decidono loro.»

«Allora non posso fidarmi di te, se non sai strapparmi da questo luogo.»

Non rispondo. 

Romelda va all’interno, prende il suo violino e torna a sedersi. Me lo porge.

«Suona» mi dice con impeto.

«Sei tu che devi suonare. È la tua musica che qui amano ascoltare.»

«Noi siamo gemelle» replica con orgoglio. «O tu o io fa lo stesso.»

Eseguo la Sonata n. 1 in sol minore per violino di Bach. Mi ascolta con trasporto. Nel giardino gli ospiti si fermano. Qualcuno sorride. Due donne ballano insieme. Un medico viene a sedersi accanto.

Romelda sta per essere dimessa. Verrà con me. A Chişinău vivo da sola. Non le ho detto ancora nulla. Non è una sorpresa. Non è un atto di riparazione. È un diritto. Voglio che resti con me sino alla fine.

Acquisto due biglietti d’aereo. Le compro degli abiti: portiamo la stessa taglia. Vado a prenderla al Centro di Salute Mentale. La vesto. La pettino. Prendo il suo violino. Le racconto cosa faremo insieme. Lei sorride. 

Stamattina abbiamo percorso insieme le strade di un tempo, ora molto cambiate. È autunno. Lungo i viali alberati ci divertiamo a schiacciare le foglie morte, perché sappiamo che non soffrono; oppure soffrono, ma a modo loro.

Il circo di Chişinău non ha più l’antico vigore dettato dal regime. È meglio così. 

Rientriamo e ci sediamo in salotto. 

Ho nascosto il suo violino. Non è un grande violino. Prendo il mio.

«Suona» le dico.

«È il tuo violino. Non potrei mai.»

«È il nostro violino. Te ne ricordi? Le gemelle suonavano un solo violino.»

«Rivoglio il mio.»

«Il tuo non esiste più.»

Ripeto: «Suona il nostro violino»

Lei lo impugna con garbo e va alla finestra. Fuori, gli alberi secolari tendono l’orecchio: sono finalmente liberi di ascoltare. L’aria fugge lontano, irrefrenabile, oltre i confini imposti dalle pochezze umane.

Romelda, la mia amica per sempre, mi guarda con tenerezza. Appoggia lo strumento alla clavicola.

E comincia a suonare.

Descrizione dell'Opera: È la storia di due amiche, che si ritrovano dopo quarantacinque anni. Vengono entrambe dalla Moldavia e hanno subito il potere del vecchio regime.