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LETTERA

Autore: RITA MAZZON

Guardo il mio bambino, sta dormendo. Non riesco a prendere sonno, anche perché restando sveglia, penso di proteggerlo. Lo osservo, è disteso sopra un materasso strappato, sotto una coperta troppo piccola. Il suo corpo è rannicchiato in un angolo, le gambe e le braccia chiuse a guscio. Mi dà una profonda tenerezza guardarlo così piccolo, indifeso. Quando apre le palpebre, si stropiccia gli occhi, mi cerca.

“Sono qui. Solo per te.” Mi affretto a sussurrargli.

Lo coccolo, l’accarezzo, sposto il ciuffo di capelli che cadono sulla fronte. Va in cerca del suo pupazzo di pezza. Lo stringe forte. Lo tocca. Lo succhia attraverso le dita.

Avevo un marito, una casa. Ora siamo qui in un bunker senza finestre. L’aria è pesante, oggi come ieri. In un’angoscia che non ha fine. Quanti giorni ancora dovremo stringerci, abbracciarci per non sentire freddo? Troppo tempo a pensare, a chiedere il perché di tutto questo. Vorrei una risposta da chi ho amato intensamente e che ora non c’è più per consolarmi.  Cerco nello zaino il quaderno a quadri. Svuoto una tasca e trovo una penna nera. Oggi ho deciso di scriverti Francesco. Oggi voglio con tutta me stessa che mi resti vicino, anche se so che ti ho perso. Ormai sono diversi mesi che sei partito per il fronte. Quel giorno mi hai tenuta stretta tra le braccia e poi hai sollevato in alto Matteo, il nostro bambino e gli hai detto.

“Più in alto, sempre più su c’è un cielo dove non avrai mai paura. Guardalo intensamente, perché in quello stesso istante lo guarderò anch’io come te.”.

Ho stretto le tue mani nelle mie. Avrei voluto che le mie dita si conficcassero forti nella tua pelle per ancorarti a me e non farti andare via. Alla fine, quando ti ho visto salire sul treno che ti portava lontano, mi sono accorta di essermi ferita una mano. Il sangue rosso uscito dal graffio ha marchiato la nostra separazione. E mai avrei voluto che si rimarginasse, per provare un dolore fisico che provenisse dall’esterno. Troppa era la sofferenza interiore di non averti più accanto. Tu mi hai sempre tenuta tra le tue braccia e lì mi sentivo al sicuro. Ora con un bimbo piccolo mi sento persa. Francesco ti voglio bene. Le mie parole le senti? Dammi la forza per continuare, perché ho tanta paura.

Ieri sono uscita dal rifugio per cercare del latte per Matteo. E mai pensavo cosa sarebbe successo. Non so rialzarmi ancora dallo spavento e rabbrividisco del fatto che non capisco il senso della guerra. Stavo tornando al rifugio e in un primo momento non l’ho visto. Quando ho sentito la sua voce che gridava, mi sono voltata. Era un ragazzo dai capelli biondi. Aveva una giubba verde e due occhi così azzurri che mangiavano tutto il viso. Ci siamo guardati a lungo. Lui aveva la pistola in mano e me la stava puntando, ma le sue dita tremavano. Io non mi capacitavo cosa potesse succedere, ma una cosa era chiara. Lui era il nemico.

Non riuscivo a dire, a fare nulla. Mi sembrava con la testa di essere altrove, come se fossi spettatrice, più che protagonista della scena. Il giovane mi ricordava il bambino con cui giocavamo nel cortile della mia casa. In una sequenza di pochi istanti ho visto il suo viso da corrucciato, distendersi. Sembrava che le sue labbra si arcuassero in una specie di sorriso. Forse mi aveva riconosciuto anche lui?

Poi il colpo è partito. Uno sparo forte in eco si è propagato. Un rumore durato una frazione di secondo. Un infinitesimale frazione di tempo che ha spezzato di netto una vita.

Un militare dietro di me ha premuto il grilletto. Ha preso la mira ed ha sparato senza darmi la possibilità di impormi. Il dito, tutto il corpo proteso in avanti erano già scattati, mentre il sentimento verso quel ragazzo si era opposto troppo piano nei miei occhi, che erano già pronti per rispondere al suo sorriso.

Il militare mi ha gridato. “Scappa!”. Ma io all’inizio non mi sono mossa, poi mi sono avvicinata al ragazzo steso a terra. Rantolava ancora.  Mi guardava con gli occhi supplici, tendendo un braccio verso di me.

Lo so, Francesco, lo so che sto farneticando, ma in quegli occhi ho visto te.

Mi sono inginocchiata e ho preso la sua mano. L’ho stretta al mio petto. Mentre la bottiglia di latte mi è sfuggita ed il suo contenuto si è sparso sulla giubba del soldato.

Il sangue si è mescolato al latte. È diventato rosa, attenuando la visione di quell’atroce scena. A fatica gli ho parlato sottovoce, in un sussurro che lui sovrastava col respiro affannoso. “Non aver paura! Sono qui. Non ti lascio solo.”.

Gli ho accarezzato la fronte. Le mie labbra si sono avvicinate alle sue, come per ascoltare le parole che mi diceva, o forse anche per unire i nostri pensieri in una cosa sola. Lo so che quello era il nemico. Era colui che probabilmente mi avrebbe ucciso. Non posso crederci però fino in fondo. Non può essere vero. Lui era l’amico, nemico. Ed io lo ripeto, ho visto te.

Non c’è stata rabbia, non c’è stato odio, o repulsione per quell’uomo che forse ti aveva massacrato. Io stavo lì accanto ad un ragazzo costretto a fare una guerra assurda, perché ci si combatte tra persone con cui una volta si stringevano le mani.

Ho detto una preghiera per lui. Nell’ultimo rantolo ho scoperto il terrore della morte. Gli ho chiuso gli occhi, ma la sua mano teneva ancora stretta la mia. Non mi voleva lasciare.  Allora ho pianto. Ho pianto per lui, per te, per tutte quelle volte che ti penso. Penso al momento in cui io con te non c’ero. Non hai sentito la mia voce vicina, non hai toccato la mia pelle per scaldarti, amore mio.

Vorrei che questa penna spaccasse il foglio bianco e le parole non fossero più attaccate al rigo, ma si mettessero a gridare, in modo che l’urlo percorresse di corsa tutto lo spazio che mi divide da te.

Il tuo coraggio ti ha portato dove non sapevi di arrivare. Ti ha messo alla prova e tu hai risposto. Non sei scappato al tuo dovere. Lo senti il mio calore? Ascolta Francesco non aver paura del buio. Non aver paura del silenzio. Il silenzio è proprio della morte. Ma il mio grido incessante è segno di vita, perché Francesco per me sei un grande eroe e gli eroi non muoiono mai.

Io non ti ho aiutato a stare all’erta. Non c’ero quando il proiettile ti ha colpito. Avrei potuto deviare il colpo. Potevo gridare. “Attento!”. Potevo pararmi davanti e prendere il colpo al posto tuo. E non c’ero quando il proiettile ti ha sconquassato il corpo e la ferita ti ha aperto il petto. Il gorgogliare del sangue, la tua mano che premeva.

Forse mi hai chiamato ed hai gridato. “Aiutami amore mio!”. Ma io non c’ero per alleviarti la sofferenza, per accarezzarti il viso, per stringere la tua mano.

Ti sei accorto quando il brivido della morte ti ha scosso in un fremito? Hai capito che ormai non potevi più lottare?

Domande, su domande che mi martellano dentro. Ed allora mi accuso. Non dovevo farti partire. Dovevo chiuderti nella nostra casa. Sbarrarti la porta e le finestre.

Si ha bisogno di ferite profonde per farci comprendere il senso della vita ed io ho bisogno delle tue risposte.

Quando ti è sgusciata di dosso la vita, ti sei aggrappato a tutto quello che potevi ricordare e portarti via con te? Hai pensato a me, a tuo figlio? Dimmelo! Eri lì che aspettavi che dovesse succedere l’irreparabile.  La ferita ti sanguinava. Era un immenso campo di papaveri rossi sulla giubba scura.

Ti vedo. Invento la fine della tua vita. La faccio diventare reale. Do spessore al testo scritto sulla carta, perché il non ricordare è una malattia grave. Ci si deve fissare bene in testa le sequenze. I pensieri sono intrappolati e un po’ alla volta riescono ad uscire.

Dopo il frastuono degli spari non ti pare di aver provato dolore. Poi non hai sentito più niente.  In quel silenzio il tuo corpo è diventato l’unico protagonista. Ecco che arranca. Non riesce a focalizzare bene il momento. La mente per quanto analizzi sta già altrove. Il tempo si ferma. Non c’è più un orologio sicuro su cui appendere le ore. I ricordi si sparpagliano. I muri sono assorbenti. Trattengono le visioni e poi le soffiano via. Cammini piano verso una luce diafana, che soffoca la speranza di sopravvivere, ma ti fa sentire leggero, al sicuro. Fino a che punto il sacrificio può in qualche modo averti dissetato? Io penso che la tua vita sia servita nel gesto estremo per salvare altre vite.

La pace ha ali trasparenti di libellula. Nessuno la vede quando si possiede. Nessuno la tocca perché abbiamo paura di scalfirla. E quando l’ala si spezza non ha più forza, così vola radente. Si imprigiona nella debolezza. E un grido diventa un flebile battito che svapora. La pace va coltivata, innaffiata ogni giorno. Non si può calpestarla, massacrarla con slogan vuoti. È una parola attiva. Non è da chiudere tra le pagine di un libro. Ha bisogno di tanta aria per uscire e vivere ancora. Dovremo sorseggiarla piano per comprenderne il significato allora.

È un’utopia credere ad ogni costo che il mondo possa cambiare?  Un’azione buona, perfino una carezza, donarsi all’altro un po’ di più? Tutto questo è solo retorica o c’è un pizzico di verità?

Nemico? Amico? Odio? Rancore? Quante sensazioni possiede una società che invece di progredire, non trova più la strada per un’assoluta visione del bene.

Quel giorno me ne sono tornata al rifugio con uno svuotamento totale. Ti ho perso, amore mio. Ti perdo ogni volta che vedo qualcuno morire.

Ho deciso di donare a nostro figlio la luce del nostro amore. Gli regalo il bene che ci ha resi uniti e la voglia di donarsi. Non esiste odio se tutto è governato dalla pace, così il potere corrotto da parole vuote verrà sconfitto. Dono a nostro figlio il coraggio di cambiare e prendere l’esempio del padre. Ogni volta che pronuncerò il tuo nome a Matteo tu sarai con noi, perché la tua anima sta al di sopra di tutto e ricordandoti non potrai mai morire.