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LETTERE DAL FRONTE

Autore: Rino Gobbi

Era un giorno del 1916 quando alla stazione la madre vedova salutava piangente i due figli che partivano per la guerra.

 

“Vedrai madre, l’ardore che mi pervade sarà il segno della vittoria”, diceva un figlio per consolarla.

 

“Vinceremo il nemico, libereremo l’Italia; sarà la libertà anche tua, madre” soggiunse l’altro fratello.

 

Il terzo figlio, più giovane, la consolava abbracciandola: “Partono entusiasti, madre” le diceva, “hanno profondo l’amor patrio, non vedi come sono contenti? Vedrai che torneranno”.

 

Il treno partì, portando con sé due fratelli verso la guerra. La madre sorretta dal figlio più giovane se ne tornò a casa.

 

Passarono cinquantacinque giorni. Dal campo di battaglia i figli scrivevano a casa manifestando l’orgoglio di essere italiani, il desiderio di combattere per la patria, la frenesia di essere al fronte. Finché un giorno arrivò una lettera che diceva più o meno così: “Madre, mio fratello è un eroe, qui non si fa altro che parlare di lui, vedessi come combatteva al fronte! Gli daranno una medaglia. Ѐ sempre stato di un carattere irruente, ma buono, e sul campo l’ha dimostrato. Devi esserne fiera”.

 

La madre, che non aveva compreso, rispose così: “Caro figlio mio, sono vecchia, non capisco bene la tua scrittura, ti ho sempre detto che scrivi come i dottori, la prossima lettera falla scrivere a tuo fratello, così almeno saprò se sta bene”.

 

Il figlio a casa lasciò la madre nella pietosa illusione.

 

Arrivò un’altra lettera: “Cara madre, sono ancora io che ti scrivo; purtroppo mio fratello è ancora al fronte. Domani ci muoveremo anche noi e forse andrò a raggiungerlo. Ti voglio bene mamma, sii fiera dei tuoi figli”. Era un modo di scrivere perché solo il fratello a casa comprendesse.

 

Dopo l’assalto, il Comando decise di dare una notizia per volta.

 

All’arrivo del primo comunicato, il terzo figlio, intuendone il contenuto, lo lesse e venne a conoscenza della certezza della morte del primo fratello. Affranto, cercò di non fare leggere la lettera alla madre. Ma lei era sulla porta, non faceva altro che aspettare il postino tutti i giorni, e se ne appropriò; la lesse e si accasciò su una sedia, vinta dal dolore. Il figlio per consolarla altro non poté dire: “Mamma, tuo figlio ha fatto onore all’Italia, è stato un eroe! Capisci mamma, mio fratello è morto per la patria, per la nostra libertà, gli daranno una medaglia!”.

 

Ma più lui parlava, più lei si disperava: la sua tragedia niente aveva a che fare con l’onore, era a suo figlio morto a cui lei pensava.

 

Nel poco tempo che segui, la madre si abbatté quel tanto da morire di crepacuore. Arrivò la seconda lettera dal Comando; il figlio che la ricevette, pur nel profondo dolore ebbe la consolazione che la madre che non c’era più, che aveva già raggiunto i suoi due figli.

 

Questa è la storia che mio nonno, il terzo figlio, raccontava a mio padre, e che mio padre raccontò a me. Mio padre mi disse che i suoi due zii riposano nel sacrario di Asiago, fra tantissimi altri giovani morti nella prima guerra mondiale.

 

Quando anni fa andai per una scampagnata da quelle parti, entrai nel tempio. La tensione di trovarmi davanti le lapidi degli zii, la loro storia che così nitidamente mio padre mi aveva raccontato, creava in me un senso di paura, come se solo al vedere i loro nomi ripiombassi negli struggimenti che aveva sofferto la madre di mio nonno.

 

La miriade di nomi erano in ordine alfabetico e non mi fu difficile trovare i miei parenti, erano su due lapidi appaiate. Dopo il naturale sbigottimento nel vedere il mio cognome impresso nei loculi, non mi colse quella emozione che avevo temuto: solo un morboso orgoglio perché due della mia famiglia si erano comportati da eroi; indicai i nomi ai compagni, raccontando brevemente la loro storia con un tono che tradiva il vanto di essere il nipote di quei soldati.

 

Fu quando alla televisione vidi un documentario sulla prima guerra mondiale che compresi meglio cosa significasse andare a combattere: un correre incontro alla morte come un gregge di agnelli che andavano a buttarsi giù dal burrone. Scene inconcepibili, che creavano incredulità; cercai di individuare i miei due parenti in quell’assalto, ma naturalmente era cosa assurda. Comunque c’erano anche loro, tra migliaia di altri ragazzi andati in guerra, quasi sicuri di morire. Pensai agli altri sacrari, ai cimiteri, ai dispersi. Lessi che nella grande guerra ci sono stati dieci milioni di morti, tra soldati e civili; ho pensato che la guerra più che spietata è stupida, come chi si sia spinto un po’ oltre con il gioco e si diletti ad ammazzare, non sapendo che ammazzare vuol dire cancellare la vita di un tuo simile per sempre.

 

Questo prima o poi dovrò spiegarlo ai miei nipoti quando saranno più grandi. Li porterò al sacrario di Asiago, a vedere dove riposano i miei nonni, a vedere le infinite lapidi con dentro quel che resta dei tantissimi soldati morti; con l’attesa del loro ritorno, come fece la mia bisnonna; con la disperazione nel ricevere lettere come quelle che ha ricevuto. Se i miei nipoti capiranno sarà stato anche il racconto di mio padre che avrà contribuito alla pace. Lo spero vivamente perché le guerre infuriano ancora. Così, speriamo che i sacrari, le ricorrenze, gli innumerevoli appelli alla pace, le tragiche scene di battaglia tocchino la coscienza di chi è al potere e si viva finalmente in un mondo di pace.

 

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