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Quella mattina tuonava – Anna

Autore: Amedeo Francesco Cappella

Quella mattina tuonava – Anna

 

Quella mattina tuonava…

É strano sentire un tuono in questo deserto di pietre e di sabbia che annichilisce la forza e la volontà di chi lo calpesta. Il sole è cattivo. Sebbene alcune nuvole nere si intravedono in lontananza, lì in fondo verso il Grande Fiume, sulla testa di Anna, suor Anna, si affannano tutti i dolori del mondo, tutte le miserie di quei luoghi pervasi di violenza e miseria, interpretati da quei raggi sadicamente infuocati, quasi a ricordare la difficoltà di vivere in quel lembo bellissimo di mondo. Il Sudan presenta il suo conto. Suor Anna è in fuga, braccata, impaurita, disperata: se non l’ammazzano i suoi carcerieri, ubriachi di sangue e di violenza bruta, ci riuscirà il Sahara e la sua arcaica immutabile potenza.

Anna, nata in Valdobbiadene già innamorata dell’Africa, impegnata da giovane con o.n.g. locali, poi, dopo aver vissuto la sua esistenza di ragazza moderna, a venti anni, folgorata dalla pastorale di san Daniele Comboni, era entrata nella Casa comboniana veronese. Aveva abbandonato la sua famiglia, i suoi amori, le sue storie di adolescente, i suoi interessi musicali, suonava il basso in una band di hard rock, e si era votata al suo amore di sempre: l’Africa, culla dell’uomo e del mondo. A ventitré anni, senza rimorsi e profondamente felice, era stata inviata presso l’orfanotrofio di Khartoum, la dolce Regina affacciata sulle acque placide del grande Nilo Bianco. Da quindici anni, oramai, viveva lì, ammaliata dai bimbi e dal Sudan. Felice, acquietata, appagata, misericordiosa.

Il deserto comincia fuori il centro urbano della metropoli, lo accarezza; con i forti venti del nord si insinua tra le casupole basse e i recinti delle masserie dell’hinterland. Il Sahara si fa respirare dagli abitanti e porta loro gli echi di racconti di viaggi, di predoni, antichi e moderni, di carovane smarrite nella sabbia e dell’immenso dolore di chi fugge, di chi sceglie una nuova vita.

La fuga di Anna non è voluta, non è ragionata, non è compiaciuto rientro. Il giovane carceriere, sbadato e intontito dall’alcool e dall’orgia di dolore sangue brutalità, ha lasciato socchiuso il portone della cella, si è appoggiato sullo stipite per pisciare. Anna ha avuto un lampo. Uno spintone alla grossa anta, questa che travolge il giovane ubriaco; cade, sbatte la testa, si accascia a terra, il sangue cola copioso dalla tempia, la fuga, via veloce, senza guardarsi indietro, i canti, gli spari, le urla, la notte è nera, il viottolo si perde nel deserto, le gambe corrono, non sentono il dolore lì, all’interno delle cosce, il sangue si è rappreso, la vergogna no.

Qualche giorno prima, le sparatorie, i morti per strada, i saccheggi, le esecuzioni sommarie, la rabbia dei combattenti delle diverse fazioni, di chi ha preso il potere e di chi lo vuole il potere, la furia dei rivoltosi, la loro cattiveria, la crudeltà di chi li ostacola hanno stracciato la quiescente quotidianità, scoperchiando un baratro scuro e senza fondo. Un budello di morte e orrore.

E, poi, ieri al tramonto mentre il sole incendiava le acque del Grande Fiume, sono entrati nell’orfanotrofio. Belve umane scatenate dall’odore di morte e di paura alla ricerca di ricchezze alcol donne, inebriati dalla tensione dei combattimenti, dal pericolo, dal terrore di essere catturati dal nemico.

Suor Celestina, suor Consiglia, padre Gabriele, distesi immobili il sangue che corre sotto i loro corpi. I bambini allontanati, caricati sui camion come agnelli, verso una sorte oscura.

Due la tengono per le braccia. Il terzo solca la sua femminilità.

Anna ricorda Giovanni, il suo amore, conosciuto da sempre, amico e  amante quando

la fanciullezza è divenuta adolescenza turbolenta e presuntuosa. Il suo primo bacio. Le sue mani timide sul suo corpo di adolescente in fiore. Il suo respiro affannoso la prima volta. Gli sguardi scambiati. La dolcezza delle sue carezze, la tenerezza del riposo.

Il fiato di quella bestia è rivoltante. Le sue mani scavano solchi sui suoi fianchi. Il ghigno, il dolore lungo continuo lancinante, il suo urlo agghiacciante a far da contraltare all’ululato di potere e di soddisfatto piacere della bestia. E poi, gli altri, poi gli altri, e, poi, gli altri indifferenti alle sue urla, al suo dolore, alla vergogna per il sacrilegio del suo corpo senza più segreti.

Lo svenimento, il risveglio, la cella scura. Il sole si è nascosto, impassibile e imperturbabile dietro le dune del deserto in lontananza.

Anna segue il sentiero che corre verso il Nilo Bianco, a monte dell’appuntamento con il Nilo Azzurro, al termine della grande città. Il vecchio tracciato, percorso dalle carovane dai tempi dei cammellieri, è solo intuibile tra cespugli di agave, arbusti di eucalipto e di acacie, palme rigogliose cariche di frutti. Non c’è nessuno. La notte cala veloce. Gli sciacalli del Sahara lanciano i loro colloqui d’amore e le loro preghiere.

Anna si accascia, sfinita, sotto una grande eucalipto, tra le sue radici e le foglie di una jacaranda. Le luci, lontane, della metropoli rischiarano l’orizzonte. Il sonno è greve, percorso da incubi, facce ghignanti cattive crudeli rabbiose. In fondo, dietro i visi dei mostri, un chiarore soffuso. Un leggero rumore, un vagito, manine protese in cerca di un seno da portare alla piccola affamata bocca.

Anna apre gli occhi. Improvvisamente sveglia, un groppo in gola, nausea allo stomaco,  il cuore in tumulto, tuffi e risalite, sussulti e giravolte.

Si alza, nessuno. Il vecchio sentiero si allontana dalle sponde del fiume, devia verso il deserto, lunga la rotta dei carovanieri. Ora dopo ora, la città è lontana. La fatica è tanta.

Datteri la ritemprano. L’oasi è sempre più vicina, ci sarà qualcuno, c’è sempre qualche carovana. Gli insulti dei raggi del sole d’Africa sono sempre più feroci. Non ha pensato, non ha voluto pensare. Non ha ricordato, non ha voluto ricordare. Ha pregato, tanto, suor Anna, per lei, per i suoi correligionari, per i bambini, i suoi bambini, orfani trafitti ancora una volta dall’Uomo, dall’odio, dalla crudeltà.

La tenda è fresca. L’anziana rugosa donna – avrà cent’anni? – l’accarezza con una dolcezza da mamma. Il te è tiepido, è quello che ci vuole, l’ha imparato in tanti anni di Sudan.

La vecchia, nella sua lingua atavica la rassicura. Il viaggio fino all’Oasi di Selima, al confine con l’Egitto, sarà veloce, pochi giorni e potrà arrivare all’ambasciata, sarà in salvo. Fatima, così si chiama, è la sciamana della tribù. La guarda, l’accarezza con il suo sguardo di nonna, premurosa affettuosa, «Non ti preoccupare, andrà tutto bene. Anche lui, perché è maschio ricordatelo, non soffrirà per il viaggio. Ti benedico e che Allah sia con voi, figli miei»

Un tuono, lontano, quasi soffocato, saluta Anna e il suo futuro.