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Quella Mattina tuonava – Nikolaj

Autore: Amedeo Francesco Cappella

QUELLA MATTINA TUONAVA – NIKOLAJ

 

Quella mattina tuonava …

Erano tuoni o colpi d’artiglieria?

Disteso nella trincea piena di fango e di pietre sparate dentro dalla violenza dei colpi di mortaio, Nikolaj aveva gli occhi sbarrati dal terrore.

Era immobile. Ghiaccio dalla paura. Incapace, quasi, di respirare. Alle sue orecchie il fluire ravvicinato dell’aria nei polmoni sembrava un frastuono enorme, una slavina di timore, di panico, di orrore, di angoscia che rotolava dalla narici sino ai polmoni irrigiditi dalla deflagrazione dello sgomento che assediava il suo cervello e il suo cuore.

Soldato scelto Nikolaj Volkov, venticinque anni da Kalenovo, nella più profonda Siberia meridionale.

Sei mesi prima un veterano, ricoperto di medaglie, gigantesco e con baffoni cascanti come l’iconografia dei cosacchi del Don, era venuto tra le quattro casupole di Kalenovo per reclutare volontari per l’Armata Rossa. L‘Alfiere Maggiore, Sergeij Antrupov, combattente ragazzino già in Afganistan, aveva ammaliato con il romanzo delle sue gesta eroiche i ragazzi del villaggio. Forse più che il racconto delle epiche azioni, i giovani erano interessati dalla paga promessa per l’arruolamento. Al mensile veniva aggiunto un premio straordinario che avrebbe permesso ai giovani siberiani di comprare casa, aprire un’attività e vivere senza problemi per alcuni anni. Era bellissimo, pensava Nikolaj. Tre anni di servizio militare. Tre anni in una caserma a San Pietroburgo – oh San Pietroburgo sempre sognata e mai visitata –  qualche esercitazione, qualche intervento in aree tranquille dell’immensa Santa Madre Russia e il tempo sarebbe passato veloce.

Con i coetanei Yuri, Ivan e Andrea aveva affrontato il lungo viaggio verso San Pietroburgo. La metropoli lo aveva affascinato. Luci, palazzi, chiese, negozi, divertimento. La città lo aveva sradicato da un’esistenza grigia e al limite della sussistenza nel suo villaggio perso nella pianura siberiana tra le anse del fiume Tom’ e del suo maestoso immissario Ob. A Kalenovo sarebbe stato un artigiano, un pescatore, un allevatore, a San Pietroburgo sarebbe divenuto un temuto e apprezzato tiratore scelto dell’Armata Rossa. Onori, rispetto, prestigio, agiatezza avrebbero coronato la sua scelta.

Un mese nella imperiale Pietroburgo e all’alba di un giorno di fine febbraio, livida scura dolente e desolata, la sveglia improvvisa, l’ordine di prepararsi velocemente, i camion nella piazza d’armi, gli amici smistati su altri mezzi senza nemmeno il tempo di lanciarsi un “arrivederci”, vocìo, urla, ordini imperiosi, l’ansare asmatico del grossi veicoli, via verso una destinazione che nessuno conosceva. I sottufficiali non parlavano, solo mascelle contratte, occhi come fessure, rughe spesse sulla fronte.

Il viaggio fu lungo, lunghissimo. Un giorno intero per raggiungere Homel’ in Bielorussia. Lì, altri ragazzi con gli stessi occhi spaesati e intimiditi dalle urla dei sottufficiali; mezzi di ogni tipo: camion, vecchie UAZ, blindati, terribili carri da combattimento, lucidi di metallo e di pioggia. Aerei che si rincorrevano in cielo e si spostavano verso sud, tutti verso sud.

« Ma a sud c’è l’Ucraina! Finalmente i Presidenti hanno risolto le diatribe e adesso andiamo in parata, ci riuniamo, torniamo a rispettarci. D’altra parte, siamo sempre stati popoli fratelli. Menomale. Tra pochi mesi spunteranno i girasoli e sarà bello passeggiare in campagna con qualche affascinante ragazza ucraina. Che bello aver lasciato quel lurido buco di Kalenovo. Sì, non potevo morire lì o, peggio ancora, vivere la mia vita tra quegli stupidi paesani » si raccontò Nikolaj. Ma aveva ancora ansia, qualcosa non lo convinceva. Gli occhi dei sottufficiali erano lucidi fissi cattivi.

Nel pomeriggio i soldati ricevettero un kalasnikcov ciascuno, tre caricatori, una baionetta.

Nessuno parlò più mentre salivano sui camion e lungo il tragitto.

Gli scoppi, il tartagliare delle armi automatiche, i terribili colpi dei tank lo accompagnarono dentro e sempre più a fondo nella bella nazione dei girasoli.

Era un orrido infinito incubo.

Nessuna spiegazione, nessun motivo, solo ordini urlati tra terra, piombo, sangue.

Non era una passeggiata, nemmeno una parata. Era guerra, incredibile orrenda terrificante guerra. Nessuna ragazza lo aspettava, anzi c’erano molte ragazze, bionde esili belle procaci, ma non avevano girasoli in mano, ma mitra e bombe e labbra serrate, cattive, crudeli. Gli occhi azzurri verdi cangianti non lanciavano sguardi d’amore, di piacere, di conquista ma solo di odio profondo efferato feroce spietato.

« Kalenovo, mie amate radici, paese della mia vita, non farmi morire qui, ti voglio rivedere, voglio riposare nella tua terra non in questa melma lurida e sconosciuta

Così salmodiava Nicolaj, il volto spiaccicato nel mondo vischioso e lercio della trincea in cui si riparava.

Un boato, gli occhi si appannano, le orecchie stridono trasformando il suono in un sibilo terribile e spaventoso, la testa scoppia, la bocca si riempie di terra, di fumo, di sangue, di paura.

Nicolaj si riappropria della vista, lentamente, a scatti, dolorosamente: lame acuminate di luce forano la nebbia, aprono varchi nella polvere, feriscono gli occhi. Nicolaj vede i suoi vecchi genitori, la piazza del paese, l’antico cimitero di croci brunite.

La canna di un AK 47 punta il suo cuore, si appoggia al petto, strazia la pelle come se fosse nuda carne all’aria. Il soldato di fronte, quelli ai lati, riempiono la forra putrida, lo trattengono, lo spingono sul fondo, la faccia spinta in giù, il fango ostruisce le nari, il respiro si blocca, l’aria ingurgitata ha il sapore di morte, marcia e putrefatta, infettata dall’umanità e dall’odio, un dolore fortissimo al petto gli interrompe il fiato.

Nicolaj, privato del respiro, svenne con la mente che gli chiedeva «perché», «perché io, perché qui, perché in questa tomba sozza come una fogna, in trappola come un animale».

La luce cominciò a filtrare tra le palpebre socchiuse. La testa stava per scoppiare. Il dolore era così intenso da creare una barriera opalina a tutto ciò che lo circondava. Gli avevano detto che alla fine del tunnel c’era una dolce ovattata piacevole luce bianca, ma non che fosse accompagnata da un tremendo mal di testa. Era vivo.

Aprì gli occhi. La vista recuperata si perse nell’indaco intenso e dolce di un altro sguardo. Capelli oro raccolti e contornati da una treccina. Un nasino regolare, leggermente arcuato si affacciava su labbra carminio, piene, sode: perfette per quella visione insperata.

Una voce delicata, intervallata da tratti duri e aspri, lo richiamò alla realtà.

«Sono il tenente colonnello medico Irina Trusckin delle truppe territoriali ucraine.

Come si sente, soldato? Ha respirato fango e stava soffocando e ha, inoltre, una seria ferita vicino al polmone».

Nicolaj solo allora si accorse dell’intenso bruciore alla trachea e del lancinante spasimo al petto.

Il braccio destro era ristretto con una fascetta di plastica alla sponda del letto.

Cercò di alzarsi, il cuore cominciò a pulsare, lo stomaco si inabissò: era prigioniero del nemico, non ancora morto –  e si chiedeva il perché – ma lo sarebbe stato presto, dopo essere stato interrogato, magari torturato e, poi, una pallottola e via, via da questo mondo.

« Calmati, stai giù, stai tranquillo. Domani torno a visitarti e vediamo come va. »

Gli occhi di Nicolaj seguirono la figura in mimetica e camice bianco che usciva dal locale.

Quel momento di dolcezza, quel viso, quella silhouette lo accompagnarono sino al sopore e, poi, al sonno. In qualche strano modo si era rilassato e dormì come non gli era mai successo in quegli ultimi mesi.

Le sue visite quotidiane, professionali sì, ma anche tanto gradevoli e ogni giorno più attese, sospirate, divennero un’occasione di dialogo, di conoscenza reciproca, di evidente corrisposto interesse. Un brivido lo accompagnava ogni volta che il giovane medico lo visitava e toccava le sue ferite.

Nicolaj capì di essere perdutamente, assurdamente, disperatamente innamorato di Irina.

Come avrebbe potuto lei, bella, istruita, intelligente e nemica, avere interesse per un soldataccio russo invasore, ignorante e contadino della Siberia più profonda? Non riusciva a pensarci senza quasi vergognarsi ma era bello lo stesso illudersi.

Nicolaj aveva ripreso le forze, era quasi completamente guarito. Ma quella mattina Irina venne per la visita di controllo accompagnata da un colonnello del Corpo di difesa Territoriale. Questi gli disse che tra qualche giorno sarebbe stato scambiato con alcuni militari ucraini catturati e sarebbe tornato nella sua Russia.

Il giovane ebbe un tuffo al cuore: era salvo, la libertà, la sua vita di sempre, Kalenovo, i suoi genitori … e Irina? L’avrebbe mai più rivista? Avrebbe mai potuto dichiararle il suo amore? Solo in un’altra vita, lontano da qui.

La guardò. Un velo di tristezza attraversò l’indaco degli occhi belli di Irina.

« Signor Colonnello, lo so, sono russo, un nemico, ma posso restare con voi? Posso combattere per il vostro paese? »

Irina, la bella Irina, incalzò «Colonnello può restare in infermeria, a me serve un inserviente, un uomo in più, Mikail e Sergej sono stati uccisi e siamo a corto di personale» Lo disse con gli occhi che ridevano, felici, radiosi.

«Ok, tenente colonnello. Te ne assumi tu la responsabilità. Ormai la tua carriera è legata e lui. Pensaci bene

Il comandate uscì. Nicolaj e Irina si guardarono, si abbracciarono, si strinsero, le loro bocche respirarono insieme, i loro occhi si specchiarono nelle loro anime.

Il loro “ti amo” infranse la crudeltà del mondo.

L’amore aveva sconfitto l’odio.

Un tuono, in lontananza, rombò sordo, prolungato, profondo.